La rassegna antologica, essenziale e però di significativa eloquenza – che consacra, alfine, negli spazi fatidici di Ca’ Pesaro, Corrado Balest tra i Maestri della contemporanea pittura veneziana -, prende avvio da un‘opera (la polifonia cromatica, se si può dir così, di una Terrazza mediterranea) che aggancia quell‘avvio degli anni settanta da cui muoveva puranco l’ampia esposizione tenuta nella primavera del 2000 presso il Centro culturale «Leonardo da Vinci»
di San Donà di Piave.
Si tratta, all‘evidenza, di una scelta la quale tien conto, ed anzi assume le motivate conclusioni cui era pervenuto un critico dell‘intelligenza e dell‘acume di Giuseppe Mazzariol presentando, nel 1987, alla Galleria «ll Traghetto» di Venezia, una personale di «dipinti recenti» di Corrado.
E, in effetti, che «gli anni vivi e felici» dell‘arte sua sian quelli «dopo il 1970» è da convenirsi quando s’ammetta – e ciò ha da esser ben chiaro – che si tratta del tragitto aperto che si dipana e scandisce, con la certezza della padronanza conquistata di un proprio linguaggio, le battute di un “dialogo di pittura” di infinita ricchezza immaginativa sul crinale del confronto, come azzardo interminabilmente riproposto, tra l‘analisi dei motivi convocati e la possibilità di tradurli in un evento dove la luce si fa pittura.
Ne offre riprova, del resto, la scelta delle opere poste qui in mostra (che è stata ardua, persin imbarazzante, ma, in ultima istanza risulta sintomatica) dalla mole di produzione che, sino ad oggi, non ha conosciuto soluzioni di continuità, pause o, men che mai, ripensamenti: negati, d‘altronde – questi ultimi -, da un rimettersi in gioco, sempre ed ogni volta, affrontando il candore muto della tela per «scegliere le proprie parole, quelle che vuole la propria voce», e con la concentrazione che la sostanza “capricciosa” della pittura impone; e ben sapendo che, «prima della gestazione e durante la crescita, non sopporta alcuna intenzione diversa da lei stessa», e che «si disturba con nulla» e, se «gli inviti son impropri e petulanti, si spegne immediatamente o appare nelle fogge più turpi».
Tuttavia, quegli «anni vivi e felici» hanno ben un retroterra, che spiega, anzitutto, quali siano stati la fatica e il travaglio della ricerca occorsi per attingere all‘approdo ad essi: e senza escludere in itinere (occorre asserirlo apertis verbis, e sottolinearlo) momenti di assoluta qualità: talché, tra parentesi, ci auguriamo che, una buona volta, qualcuno voglia prendersi la briga di organizzare, riesumando i reperti da collezioni pubbliche e private nonché nello studio dell‘artista, una rassegna dell‘attività di Balest tra il 1950, quando esordì con una personale alla Fondazione
Bevilacqua La Masa, e il 1969-1970, allorché in due successive occasioni si presentò alla Galleria Patrizia di Milano, introdotto da Neri Pozza.
Il quale, già nel 1966, su «La Fiera letteraria», di Balest aveva additato l‘«insensatezza affascinante» appartenente alla «rara coerenza e pazienza» che, tenendolo «lontano dalle mode», lo avevano «disposto a correre tutti i rischi [. .. ] di una pittura di tono e di luce» che chiedeva solo di essere affinata con «tensione immaginativa» e «per via di lente elaborazioni», così da giungere a «rappresentare, nella loro essenziale verità», i «pretesti congeniali» offerti dall‘osservare «con gli occhi immagati di un poeta», il mondo affrontato sempre «con amore». Quell‘«amore», «quegli occhi» – insisteva Pozza – Balest «farà bene a conservare», «mettendo a confronto gli uni con l‘altro nel processo quotidiano di contemplazione e di ricerca», anche quando – inevitabilmente: «perché ne ha il fiato e la preparazione» – si fosse portato a misurarsi
«con temi più vasti e impegnativi» dell‘abbandono intimistico a scrutare scorci lagunari, case e alberi abbracciati dalle lente curve collinari del Montello, piccoli mazzi di fiori.
«Alla scoperta della luce»: con l‘«insensatezza» di chi ha deciso di tenersi fuori dai tumulti che scotevano la congiuntura entro cui Balest aveva cominciato a muoversi e procedeva, opponendo “astrattismo” e “realismo”, tra slanci generosi, irrigidimenti dogmatici, tentativi di compromesso – e tanta, troppa, ideologia -, ma sempre incorporati in “movimenti“, etichettati da manifesti programmatici. Non si trattava, però, da parte di Corrado, di indifferenza, di insensibilità; ancor meno di aristocratico e sprezzante distacco. Gli era – come gli è -, semplicemente, estranea la convinzione che il processo della maturazione, che la vita lunga e difficile della conquista di un proprio linguaggio, debbano di necessità passare attraverso incontri e scontri da consumarsi sotto le bandiere di gruppi ideologicamente compatti. La pittura, per Balest, va cercata – e la cerca – dove è veramente: e la si può trovare sia tra gli astrattisti sia tra i figurativi, nella consapevolezza dei grandi maestri del passato. Per tempo, aveva percepito – e via via, se ne era fatto convinto – che l‘arte moderna è intrigo di contraddizioni: nel momento in cui capiva che non era il caso – per lui; per il suo destino – di invischiarsi in esso, di lasciarsi avvolgere nei suoi moti turbinosi e tanto più agitati perché imprigionati in una gabbia di pregiudizi inflessibili, d‘ordine teorico prima ancora che di valenza estetica. Lungi dal rifiutarne l‘esperienza, l‘accetta come una lezione da accogliere comunque, non certo imparzialmente ma in quanto potesse rispondere alle domande che, con urgenza incalzante, la volontà di costruire un proprio linguaggio e sue proprie forme, gli poneva e continuava a porgli.
Altre cose, al di là di ciò che dalle tensioni degli artisti della sua generazione veniva fuori, captavano però l‘attenzione di Corrado; ne stimolavano l‘indagine, e la vena. Gli approdi estremi dell‘avventura singolare ( intrepida», sottolineava Francesco Arcangeli) di Filippo de Pisis, esibiti alle Biennali del 1948 e del 1952, con quella loro inclinazione, di sapore proustiano, «ad esprimere e ad approfondire la sensazione»; la smaterializzazione delle forme in eventi di abbagliante energia luminosa cui, anch‘essa spettando ai rovelli di uno scontroso cammino individuale, era pervenuto Virgilio Guidi. E, ancora, e pur accomunandosi agli altri giovani artisti italiani nel partecipare della “rivelazione”, le edizioni del 1948 e del 1952 della Biennale, governate dalla lungimirante intelligenza critica di Rodo/fo Pallucchini, avevano sfornato occasioni irripetibili, le quali consentivano esperienze esaltanti e concrete a chi, degli eventi più strepitosi della contemporaneità, aveva conosciuto solo il presagio, sfogliando le riviste d‘arte.
Potevano sfuggire allo sguardo, alla concentrazione, all‘emozione di un giovane come Corrado, con quel suo istinto da “bracco sulle piste” – e alla sua capacità di studiare “le opere sino all‘osso”, ripassando “ogni cosa davanti agli occhi” -, la sfilata dei Picasso, dei Malevich, dei Mirò, dei Klee, dei Kandinsky, dei Chagall della Collezione Guggenheim esibiti nel 1948? E la sfilata dei tre “metafisici” Carrà, De Chirico, Morandi?
Ovvero, nel 1952, le Mostre del Cavaliere azzurro e dei Fauves, col trionfo di Matisse, esaltato dal premio che lo accomunava a Carrà, destinatario del riconoscimento destinato agli italiani? Ma il “bracco” si muoveva con una sagacia che, a mio parere, non ha riscontro in nessun altro pittore italiano di quella generazione. Richiedeva davvero gran fiuto, infatti, per un giovane nostrano, non lasciarsi scappare la segnalazione di Russoli e Landini dell‘<<unico vero poeta della generazione di mezzo che ha dato l‘École de Paris», e trarne subito suggestione prepotente alla conquista tenace di un proprio “punto di luce“, guardando subito, dunque – aggirandosi per le gallerie parigine -, alla lezione sublime di Nicolas de Stael nell’estrema sua stagione dopo il 1953: al suo “costruttivismo neofigurativo” – fantasmi di realtà sprigionati dal comporre per masse cromatiche -, e magari per coglierne (con Francesco Arcangeli?) le ascendenze in Morandi e, così, andare a rileggerselo. Pochi, tra i critici di Balest, han fatto caso a tutto questo o al suo risalire a Bonnard e ai Nabis o – ancora – attorno al 1970, alla sua attenzione a Rothko. Eppure, basterebbe osservare con attenzione, per esempio, certe squisite vedute veneziane, tra 1952 e 1960, per intendere che, senza un simile passaggio – che si traduce nella calibratura delle misure del taglio prospettico per stratificazione successiva dei campi di colore, in fughe di piani entro la luce diffusa -, non sarebbe stato possibile il processo di approssimazione al “punto” capace di stabilire la “perentorietà di dettato” che fisserà, nella magia di un evento lirico, l‘equilibrio di apparizioni iconiche e costruzione di puri piani pittorici.
È fuor di dubbio, comunque, che, dopo il 1970, l‘universo formale di Balest conosce l‘aggiustamento nuovo, e definitivo (se non altro perché tale lo sente e rivendica il Maestro stesso nell‘ostinazione a far partire da quell‘anno, e da un paio di decenni a questa parte, ogni sua antologica: come, per l‘appunto, questa a Ca’ Pesaro): e, tuttavia, se pur si tratta del traguardo coerente – come abbiam cercato di spiegare – di una lunga, imperterrita avventura, la dimensione stilistica e linguistica che dispiega, appare, se non (ovviamente) inattesa, sorprendente, e tanto più per la modalità della scelta dei «temi più vasti e impegnativi» preconizzati da Neri Pozza, che quella dimensione viene ad impalcare.
La rappresentazione di veduta, di paesaggio quale sin là Corrado aveva offerto – e non staccava, quanto meno nell’ordine tipologico, dalla tradizione codificata -, così come quella di natura morta, di figura, di ritratto, vengono meno quasi d’improvviso: l‘artista, cioè, ne abbandona l‘assunzione e la trattazione distinte in quanto generi caratterizzati e sottostanti a regole specifiche, per effettuarne una sintesi spregiudicata e libera come superamento dei limiti tematici attraverso la complessità del motivo e dell’intreccio, stabilendo nella misura di una spazialità interna, esplicitamente evocata o allusa, il punto strategico di riferimento:le coordinate, suggestive o evocate, non più – s’intende – prospettiche. E si guardino, qui, proprio la Terrazza o la Danae dell’anno dopo. Val la pena di riflettere su una circostanza. Nel 1971 – in un paio di occasioni, alla Fondazione Bevilacqua La Masa e a Vienna – Balest esponeva un gruppo di acqueforti di Motivi veneziani e di Dei in campagna. Quantunque, in precedenza, gli fosse accaduto di integrare personali di opere pittoriche con qualche disegno di varia tecnica (carboncino, lapis, ecc.) e di illustrare testi letterari con incisioni, il duplice exploit attestava un retroterra di applicazioni alla grafica tutt’altro che occasionali, ma accanite e sistematiche. E non solo; se pur approdava ad esiti risolti e autonomi, di sbalorditiva sapienza e straordinaria finezza e qualità, è impensabile che l’impegno grafico avvenisse su binari paralleli, e pertanto senza incroci, alla traiettoria della produzione pittorica, ed è da ritenere, semmai, che il sondaggio e la sperimentazione delle potenzialità del segno puro, ben lungi dal separarsene e procedere per proprio conto, interferissero, pungolandoli ed arricchendoli, sui processi di definizione, adeguata alle esigenze espressive, del linguaggio pittorico, anche attraverso la convocazione e il controllo di nuove, e più opportune, proposizioni tematiche. Che, financo, anticipassero, in termini di prova e verifica insieme, soluzioni pittoriche. In tal guisa, i Motivi veneziani recidono ogni laccio che ancor legasse la percezione e la rappresentazione della città ai canoni della tradizione vedutistica (da cui neppur Turner; e Monet, Signac e Dufy, Baudin e
Boccioni, Kokoschka e de Pisis, Carrà e Guidi, in ultima istanza, risultano veramente svincolati): e rendono volatile e fluttuante l‘immagine nel momento in cui il point-de-vue si disloca da qualsivoglia appoggio concreto per ridursi a cosa mentale, che fissa le coordinate dell‘impaginazione, sciogliendo le cadenze del montaggio degli ingredienti compositivi in ritmi di linee volubili e di macchie di tratteggio folto o lieve, obbedienti solo all‘impulso interiore di un‘emozione, che apre – e associa; anzi: assimila – alla memoria di altre suggestioni, mediterranee, d‘acqua e di luce. Al modo stesso, nella sequenza degli Dei in campagna, la resa del paesaggio risponde alle istanze di una libertà tematica e compositiva alimentata da stati d‘animo che scatenano l‘immaginazione associativa, sogno o nostalgia di mediterranee – ancora! – derive, custodi di antichi templi affondati in un bosco d‘alberi robusti, esili arbusti, sterpi, e popolate di aggraziate figure sottili e ignude di efebi e fanciulle, da fauni ridenti e da caproni beffardi. [identificazione, dunque, dei “temi più vasti e impegnativi” si incentra nella scoperta del mito quale oscura coscienza del suo intreccio con l’arte attraverso il linguaggio, che Ernest Cassirer aveva intuito. Ma è il proprio Eden che Balest evoca in quanto presagio di un‘Ellade antica come invaso di desiderio, di sensualità e di erotici abbandoni; metafora, infine, della propria realtà esistenziale, col suo sentimento lieto della vita, con la sua ostinata gioia di vivere. E “con amore per il mondo” (Motivi d’amore, è intitolata una raccolta grafica del 1979) che gli “immaga” lo sguardo “di poeta” ignaro dell‘ipocrisia quale la intendeva Montaigne in quel mirabile quinto capitolo del terzo libro degli Essais – ch‘è il testo letterario forse più amato da Balest -, nello spirito ciceroniano (De finibus, II, 77) onde «non pudeat dicere quod non pudeat sentire». Ne consegue che dall‘espressione di un simile afflato lirico, vien rimossa ogni vena elegiaca, intrisa di umori malinconici, che condizionava, invece, la comunicazione nelle opere nella fase artistica lasciata alle spalle. Il raggiungimento della nuova e definiva meta pittorica comportava, però, necessari e ineludibili accorgimenti: e non si trattava solamente di costruire lo spazio semplicemente (automaticamente; meccanicamente) traducendo le gradazioni chiaroscurali ottenute grazie alla manipolazione accorta della linea e del tratteggio in campi cromatici, ma pure di tener conto – risolvendo i problemi che ne derivavano – che, mentre l‘affermazione grafica poteva effondersi sul foglio di carta bianco senza essere condizionata dai suoi confini indefiniti, l’asserzione pittorica non poteva non tener conto dei limiti, ideali o marcati, di una cornice. Ed ecco, allora, la scelta sempre nuova del point-de-vue di luce, da un interno o di un interno, che si carica poi di un eloquente valore di inequivocabile allusività metaforica, giacché postula la proiezione visiva della propria interiorità e dei suoi moti, e la pretende dinamica, partecipabile, coinvolgente e, quindi e per dir così, temporalizzabile. Si vedano qui il Divano del 1974 e l’ Angelos notturno del 1977. Osservò, una volta, con felicissima intuizione critica, Giuseppe Mazzariol, che in una siffatta maturazione della sua avventura creativa e stilistica, Balest cessa di organizzare lo spazio compositivo per scansioni di piani e attorno all‘oggetto – veduta, paesaggio, natura morta, figura – come dato definito, ma affida a ritmi interni agli oggetti di cui suscita «la successione delle apparizioni», l‘assetto dinamico della struttura spaziale (esemplari la Casa greca del 1985 e l’Interno e finestra realizzato tra 1989 e il 2003) e così passa «dal colore descrittivo al colore significante, da una prospettiva gerarchizzata ad una disposizione paratattica di forme e campiture cromatiche … ». Elemento generatore e scatenante l‘evento formale «è la presentazione del colore usato, quantitativamente – estensione e peso delle campiture – e qualitativamente – varietà e intensità dei timbri» (<<rossi violacei, verdi bottiglia, gialli lividi, e grigi di ferro arsi ed opachi») – nel governo – aggiungerei con Neri Pozza -, depurante e purificante, esercitato dal punto di luce, con le sottolineature sferzanti e musicali – concluderei – di guizzi e ricami di sottili o spessi segni lineari cui vien rimesso l‘incanta mento – ”l‘immagamento” – della presenza della figura o dell‘oggetto. E si consideri il rovello sotteso dalla Terrazza marina, condotto a compimento tra il 1973 e il 1989. Retrospettiva divinazione di Picasso e Matiisse, siccome qualcuno ha suggerito? Vorrebbe dire l’incomprensione o il fraintendimento, sull’inganno di analogie apparenti, di un autonomo e originale processo di altissima temperie linguistica e stilistica. Postillava ironicamente Mazzariol: «Matisse? E perché non il raffinatissimo maestro musivo della rinascenza paleologa?». Che, semmai, potrebbe darsi: così come la memoria della lezione sconvolgente di quell‘ultimo de Stae la cui origine scatenante qualcuno volle condurre – anche; e vedi caso – al brivido provato davanti ai mosaici di Ravenna e Monreale.
Dunque. linguaggio, forma, stile; motivi come trama lirica e mai narrativa (<<il romanzo è la favola delle fate – ha scritto Pessoa – di chi non ha immaginazione»); sistema – o, meglio, struttura– non programmatico ma aperto e dinamico e capace di accogliere e rappresentare in una successione di eventi mai ripetitivi, suggellati e compiuti, e però sempre rinnovati e nuovi (si confronti il Mediterraneo del 2001 con quello del 2003), gli slanci di un estro immaginativo inesauribile.
L’antologia della pittura di Corrado Balest presentata a Ca‘ Pesaro, proprio là dove si sbilancia insistendo sulle opere recenti e recentissime, sbalza come l‘avventura artistica del pittore sia ben lungi dall‘appagamento di un traguardo che consenta l‘esercizio compiaciuto della maniera di sé, e continui a srotolare, (viceversa la stupefacente Loggia del 2003) rigenerate occasioni prodigiosamente risolte e, tuttavia, l’una all‘altra non sovrapponibile, né contraddittoria.
Lionello Puppi
Venezia, luglio 2003
La rassegna antologica, essenziale e però di significativa eloquenza – che consacra, alfine, negli spazi fatidici di Ca’ Pesaro, Corrado Balest tra i Maestri della contemporanea pittura veneziana -, prende avvio da un‘opera (la polifonia cromatica, se si può dir così, di una Terrazza mediterranea) che aggancia quell‘avvio degli anni settanta da cui muoveva puranco l’ampia esposizione tenuta nella primavera del 2000 presso il Centro culturale «Leonardo da Vinci»
di San Donà di Piave.
Si tratta, all‘evidenza, di una scelta la quale tien conto, ed anzi assume le motivate conclusioni cui era pervenuto un critico dell‘intelligenza e dell‘acume di Giuseppe Mazzariol presentando, nel 1987, alla Galleria «ll Traghetto» di Venezia, una personale di «dipinti recenti» di Corrado.
E, in effetti, che «gli anni vivi e felici» dell‘arte sua sian quelli «dopo il 1970» è da convenirsi quando s’ammetta – e ciò ha da esser ben chiaro – che si tratta del tragitto aperto che si dipana e scandisce, con la certezza della padronanza conquistata di un proprio linguaggio, le battute di un “dialogo di pittura” di infinita ricchezza immaginativa sul crinale del confronto, come azzardo interminabilmente riproposto, tra l‘analisi dei motivi convocati e la possibilità di tradurli in un evento dove la luce si fa pittura.
Ne offre riprova, del resto, la scelta delle opere poste qui in mostra (che è stata ardua, persin imbarazzante, ma, in ultima istanza risulta sintomatica) dalla mole di produzione che, sino ad oggi, non ha conosciuto soluzioni di continuità, pause o, men che mai, ripensamenti: negati, d‘altronde – questi ultimi -, da un rimettersi in gioco, sempre ed ogni volta, affrontando il candore muto della tela per «scegliere le proprie parole, quelle che vuole la propria voce», e con la concentrazione che la sostanza “capricciosa” della pittura impone; e ben sapendo che, «prima della gestazione e durante la crescita, non sopporta alcuna intenzione diversa da lei stessa», e che «si disturba con nulla» e, se «gli inviti son impropri e petulanti, si spegne immediatamente o appare nelle fogge più turpi».
Tuttavia, quegli «anni vivi e felici» hanno ben un retroterra, che spiega, anzitutto, quali siano stati la fatica e il travaglio della ricerca occorsi per attingere all‘approdo ad essi: e senza escludere in itinere (occorre asserirlo apertis verbis, e sottolinearlo) momenti di assoluta qualità: talché, tra parentesi, ci auguriamo che, una buona volta, qualcuno voglia prendersi la briga di organizzare, riesumando i reperti da collezioni pubbliche e private nonché nello studio dell‘artista, una rassegna dell‘attività di Balest tra il 1950, quando esordì con una personale alla Fondazione
Bevilacqua La Masa, e il 1969-1970, allorché in due successive occasioni si presentò alla Galleria Patrizia di Milano, introdotto da Neri Pozza.
Il quale, già nel 1966, su «La Fiera letteraria», di Balest aveva additato l‘«insensatezza affascinante» appartenente alla «rara coerenza e pazienza» che, tenendolo «lontano dalle mode», lo avevano «disposto a correre tutti i rischi [. .. ] di una pittura di tono e di luce» che chiedeva solo di essere affinata con «tensione immaginativa» e «per via di lente elaborazioni», così da giungere a «rappresentare, nella loro essenziale verità», i «pretesti congeniali» offerti dall‘osservare «con gli occhi immagati di un poeta», il mondo affrontato sempre «con amore». Quell‘«amore», «quegli occhi» – insisteva Pozza – Balest «farà bene a conservare», «mettendo a confronto gli uni con l‘altro nel processo quotidiano di contemplazione e di ricerca», anche quando – inevitabilmente: «perché ne ha il fiato e la preparazione» – si fosse portato a misurarsi
«con temi più vasti e impegnativi» dell‘abbandono intimistico a scrutare scorci lagunari, case e alberi abbracciati dalle lente curve collinari del Montello, piccoli mazzi di fiori.
«Alla scoperta della luce»: con l‘«insensatezza» di chi ha deciso di tenersi fuori dai tumulti che scotevano la congiuntura entro cui Balest aveva cominciato a muoversi e procedeva, opponendo “astrattismo” e “realismo”, tra slanci generosi, irrigidimenti dogmatici, tentativi di compromesso – e tanta, troppa, ideologia -, ma sempre incorporati in “movimenti“, etichettati da manifesti programmatici. Non si trattava, però, da parte di Corrado, di indifferenza, di insensibilità; ancor meno di aristocratico e sprezzante distacco. Gli era – come gli è -, semplicemente, estranea la convinzione che il processo della maturazione, che la vita lunga e difficile della conquista di un proprio linguaggio, debbano di necessità passare attraverso incontri e scontri da consumarsi sotto le bandiere di gruppi ideologicamente compatti. La pittura, per Balest, va cercata – e la cerca – dove è veramente: e la si può trovare sia tra gli astrattisti sia tra i figurativi, nella consapevolezza dei grandi maestri del passato. Per tempo, aveva percepito – e via via, se ne era fatto convinto – che l‘arte moderna è intrigo di contraddizioni: nel momento in cui capiva che non era il caso – per lui; per il suo destino – di invischiarsi in esso, di lasciarsi avvolgere nei suoi moti turbinosi e tanto più agitati perché imprigionati in una gabbia di pregiudizi inflessibili, d‘ordine teorico prima ancora che di valenza estetica. Lungi dal rifiutarne l‘esperienza, l‘accetta come una lezione da accogliere comunque, non certo imparzialmente ma in quanto potesse rispondere alle domande che, con urgenza incalzante, la volontà di costruire un proprio linguaggio e sue proprie forme, gli poneva e continuava a porgli.
Altre cose, al di là di ciò che dalle tensioni degli artisti della sua generazione veniva fuori, captavano però l‘attenzione di Corrado; ne stimolavano l‘indagine, e la vena. Gli approdi estremi dell‘avventura singolare ( intrepida», sottolineava Francesco Arcangeli) di Filippo de Pisis, esibiti alle Biennali del 1948 e del 1952, con quella loro inclinazione, di sapore proustiano, «ad esprimere e ad approfondire la sensazione»; la smaterializzazione delle forme in eventi di abbagliante energia luminosa cui, anch‘essa spettando ai rovelli di uno scontroso cammino individuale, era pervenuto Virgilio Guidi. E, ancora, e pur accomunandosi agli altri giovani artisti italiani nel partecipare della “rivelazione”, le edizioni del 1948 e del 1952 della Biennale, governate dalla lungimirante intelligenza critica di Rodo/fo Pallucchini, avevano sfornato occasioni irripetibili, le quali consentivano esperienze esaltanti e concrete a chi, degli eventi più strepitosi della contemporaneità, aveva conosciuto solo il presagio, sfogliando le riviste d‘arte.
Potevano sfuggire allo sguardo, alla concentrazione, all‘emozione di un giovane come Corrado, con quel suo istinto da “bracco sulle piste” – e alla sua capacità di studiare “le opere sino all‘osso”, ripassando “ogni cosa davanti agli occhi” -, la sfilata dei Picasso, dei Malevich, dei Mirò, dei Klee, dei Kandinsky, dei Chagall della Collezione Guggenheim esibiti nel 1948? E la sfilata dei tre “metafisici” Carrà, De Chirico, Morandi?
Ovvero, nel 1952, le Mostre del Cavaliere azzurro e dei Fauves, col trionfo di Matisse, esaltato dal premio che lo accomunava a Carrà, destinatario del riconoscimento destinato agli italiani? Ma il “bracco” si muoveva con una sagacia che, a mio parere, non ha riscontro in nessun altro pittore italiano di quella generazione. Richiedeva davvero gran fiuto, infatti, per un giovane nostrano, non lasciarsi scappare la segnalazione di Russoli e Landini dell‘<<unico vero poeta della generazione di mezzo che ha dato l‘École de Paris», e trarne subito suggestione prepotente alla conquista tenace di un proprio “punto di luce“, guardando subito, dunque – aggirandosi per le gallerie parigine -, alla lezione sublime di Nicolas de Stael nell’estrema sua stagione dopo il 1953: al suo “costruttivismo neofigurativo” – fantasmi di realtà sprigionati dal comporre per masse cromatiche -, e magari per coglierne (con Francesco Arcangeli?) le ascendenze in Morandi e, così, andare a rileggerselo. Pochi, tra i critici di Balest, han fatto caso a tutto questo o al suo risalire a Bonnard e ai Nabis o – ancora – attorno al 1970, alla sua attenzione a Rothko. Eppure, basterebbe osservare con attenzione, per esempio, certe squisite vedute veneziane, tra 1952 e 1960, per intendere che, senza un simile passaggio – che si traduce nella calibratura delle misure del taglio prospettico per stratificazione successiva dei campi di colore, in fughe di piani entro la luce diffusa -, non sarebbe stato possibile il processo di approssimazione al “punto” capace di stabilire la “perentorietà di dettato” che fisserà, nella magia di un evento lirico, l‘equilibrio di apparizioni iconiche e costruzione di puri piani pittorici.
È fuor di dubbio, comunque, che, dopo il 1970, l‘universo formale di Balest conosce l‘aggiustamento nuovo, e definitivo (se non altro perché tale lo sente e rivendica il Maestro stesso nell‘ostinazione a far partire da quell‘anno, e da un paio di decenni a questa parte, ogni sua antologica: come, per l‘appunto, questa a Ca’ Pesaro): e, tuttavia, se pur si tratta del traguardo coerente – come abbiam cercato di spiegare – di una lunga, imperterrita avventura, la dimensione stilistica e linguistica che dispiega, appare, se non (ovviamente) inattesa, sorprendente, e tanto più per la modalità della scelta dei «temi più vasti e impegnativi» preconizzati da Neri Pozza, che quella dimensione viene ad impalcare.
La rappresentazione di veduta, di paesaggio quale sin là Corrado aveva offerto – e non staccava, quanto meno nell’ordine tipologico, dalla tradizione codificata -, così come quella di natura morta, di figura, di ritratto, vengono meno quasi d’improvviso: l‘artista, cioè, ne abbandona l‘assunzione e la trattazione distinte in quanto generi caratterizzati e sottostanti a regole specifiche, per effettuarne una sintesi spregiudicata e libera come superamento dei limiti tematici attraverso la complessità del motivo e dell’intreccio, stabilendo nella misura di una spazialità interna, esplicitamente evocata o allusa, il punto strategico di riferimento:le coordinate, suggestive o evocate, non più – s’intende – prospettiche. E si guardino, qui, proprio la Terrazza o la Danae dell’anno dopo. Val la pena di riflettere su una circostanza. Nel 1971 – in un paio di occasioni, alla Fondazione Bevilacqua La Masa e a Vienna – Balest esponeva un gruppo di acqueforti di Motivi veneziani e di Dei in campagna. Quantunque, in precedenza, gli fosse accaduto di integrare personali di opere pittoriche con qualche disegno di varia tecnica (carboncino, lapis, ecc.) e di illustrare testi letterari con incisioni, il duplice exploit attestava un retroterra di applicazioni alla grafica tutt’altro che occasionali, ma accanite e sistematiche. E non solo; se pur approdava ad esiti risolti e autonomi, di sbalorditiva sapienza e straordinaria finezza e qualità, è impensabile che l’impegno grafico avvenisse su binari paralleli, e pertanto senza incroci, alla traiettoria della produzione pittorica, ed è da ritenere, semmai, che il sondaggio e la sperimentazione delle potenzialità del segno puro, ben lungi dal separarsene e procedere per proprio conto, interferissero, pungolandoli ed arricchendoli, sui processi di definizione, adeguata alle esigenze espressive, del linguaggio pittorico, anche attraverso la convocazione e il controllo di nuove, e più opportune, proposizioni tematiche. Che, financo, anticipassero, in termini di prova e verifica insieme, soluzioni pittoriche. In tal guisa, i Motivi veneziani recidono ogni laccio che ancor legasse la percezione e la rappresentazione della città ai canoni della tradizione vedutistica (da cui neppur Turner; e Monet, Signac e Dufy, Baudin e
Boccioni, Kokoschka e de Pisis, Carrà e Guidi, in ultima istanza, risultano veramente svincolati): e rendono volatile e fluttuante l‘immagine nel momento in cui il point-de-vue si disloca da qualsivoglia appoggio concreto per ridursi a cosa mentale, che fissa le coordinate dell‘impaginazione, sciogliendo le cadenze del montaggio degli ingredienti compositivi in ritmi di linee volubili e di macchie di tratteggio folto o lieve, obbedienti solo all‘impulso interiore di un‘emozione, che apre – e associa; anzi: assimila – alla memoria di altre suggestioni, mediterranee, d‘acqua e di luce. Al modo stesso, nella sequenza degli Dei in campagna, la resa del paesaggio risponde alle istanze di una libertà tematica e compositiva alimentata da stati d‘animo che scatenano l‘immaginazione associativa, sogno o nostalgia di mediterranee – ancora! – derive, custodi di antichi templi affondati in un bosco d‘alberi robusti, esili arbusti, sterpi, e popolate di aggraziate figure sottili e ignude di efebi e fanciulle, da fauni ridenti e da caproni beffardi. [identificazione, dunque, dei “temi più vasti e impegnativi” si incentra nella scoperta del mito quale oscura coscienza del suo intreccio con l’arte attraverso il linguaggio, che Ernest Cassirer aveva intuito. Ma è il proprio Eden che Balest evoca in quanto presagio di un‘Ellade antica come invaso di desiderio, di sensualità e di erotici abbandoni; metafora, infine, della propria realtà esistenziale, col suo sentimento lieto della vita, con la sua ostinata gioia di vivere. E “con amore per il mondo” (Motivi d’amore, è intitolata una raccolta grafica del 1979) che gli “immaga” lo sguardo “di poeta” ignaro dell‘ipocrisia quale la intendeva Montaigne in quel mirabile quinto capitolo del terzo libro degli Essais – ch‘è il testo letterario forse più amato da Balest -, nello spirito ciceroniano (De finibus, II, 77) onde «non pudeat dicere quod non pudeat sentire». Ne consegue che dall‘espressione di un simile afflato lirico, vien rimossa ogni vena elegiaca, intrisa di umori malinconici, che condizionava, invece, la comunicazione nelle opere nella fase artistica lasciata alle spalle. Il raggiungimento della nuova e definiva meta pittorica comportava, però, necessari e ineludibili accorgimenti: e non si trattava solamente di costruire lo spazio semplicemente (automaticamente; meccanicamente) traducendo le gradazioni chiaroscurali ottenute grazie alla manipolazione accorta della linea e del tratteggio in campi cromatici, ma pure di tener conto – risolvendo i problemi che ne derivavano – che, mentre l‘affermazione grafica poteva effondersi sul foglio di carta bianco senza essere condizionata dai suoi confini indefiniti, l’asserzione pittorica non poteva non tener conto dei limiti, ideali o marcati, di una cornice. Ed ecco, allora, la scelta sempre nuova del point-de-vue di luce, da un interno o di un interno, che si carica poi di un eloquente valore di inequivocabile allusività metaforica, giacché postula la proiezione visiva della propria interiorità e dei suoi moti, e la pretende dinamica, partecipabile, coinvolgente e, quindi e per dir così, temporalizzabile. Si vedano qui il Divano del 1974 e l’ Angelos notturno del 1977. Osservò, una volta, con felicissima intuizione critica, Giuseppe Mazzariol, che in una siffatta maturazione della sua avventura creativa e stilistica, Balest cessa di organizzare lo spazio compositivo per scansioni di piani e attorno all‘oggetto – veduta, paesaggio, natura morta, figura – come dato definito, ma affida a ritmi interni agli oggetti di cui suscita «la successione delle apparizioni», l‘assetto dinamico della struttura spaziale (esemplari la Casa greca del 1985 e l’Interno e finestra realizzato tra 1989 e il 2003) e così passa «dal colore descrittivo al colore significante, da una prospettiva gerarchizzata ad una disposizione paratattica di forme e campiture cromatiche … ». Elemento generatore e scatenante l‘evento formale «è la presentazione del colore usato, quantitativamente – estensione e peso delle campiture – e qualitativamente – varietà e intensità dei timbri» (<<rossi violacei, verdi bottiglia, gialli lividi, e grigi di ferro arsi ed opachi») – nel governo – aggiungerei con Neri Pozza -, depurante e purificante, esercitato dal punto di luce, con le sottolineature sferzanti e musicali – concluderei – di guizzi e ricami di sottili o spessi segni lineari cui vien rimesso l‘incanta mento – ”l‘immagamento” – della presenza della figura o dell‘oggetto. E si consideri il rovello sotteso dalla Terrazza marina, condotto a compimento tra il 1973 e il 1989. Retrospettiva divinazione di Picasso e Matiisse, siccome qualcuno ha suggerito? Vorrebbe dire l’incomprensione o il fraintendimento, sull’inganno di analogie apparenti, di un autonomo e originale processo di altissima temperie linguistica e stilistica. Postillava ironicamente Mazzariol: «Matisse? E perché non il raffinatissimo maestro musivo della rinascenza paleologa?». Che, semmai, potrebbe darsi: così come la memoria della lezione sconvolgente di quell‘ultimo de Stae la cui origine scatenante qualcuno volle condurre – anche; e vedi caso – al brivido provato davanti ai mosaici di Ravenna e Monreale.
Dunque. linguaggio, forma, stile; motivi come trama lirica e mai narrativa (<<il romanzo è la favola delle fate – ha scritto Pessoa – di chi non ha immaginazione»); sistema – o, meglio, struttura– non programmatico ma aperto e dinamico e capace di accogliere e rappresentare in una successione di eventi mai ripetitivi, suggellati e compiuti, e però sempre rinnovati e nuovi (si confronti il Mediterraneo del 2001 con quello del 2003), gli slanci di un estro immaginativo inesauribile.
L’antologia della pittura di Corrado Balest presentata a Ca‘ Pesaro, proprio là dove si sbilancia insistendo sulle opere recenti e recentissime, sbalza come l‘avventura artistica del pittore sia ben lungi dall‘appagamento di un traguardo che consenta l‘esercizio compiaciuto della maniera di sé, e continui a srotolare, (viceversa la stupefacente Loggia del 2003) rigenerate occasioni prodigiosamente risolte e, tuttavia, l’una all‘altra non sovrapponibile, né contraddittoria.
Lionello Puppi
Venezia, luglio 2003