L’idea che Corrado Balest insegua con la fantasia il momento felice dell’esistenza, e che proprio di segni e di colori sia fatta, mi è presente dal 1978; cioè da quando ha esposto a Nuovo Spazio, qui a Venezia, i quaranta dipinti, datati dal 1972 al 1978.

Allora, perché non andasse perduta la memoria di quella rassegna, elaborammo un catalogo postumo, dal titolo Cronaca di una mostra, dove, con rapidi schizzi, l’artista aveva figurato le quaranta opere esposte. Oggi, che le rivedo in quei cenni tutte quaranta, e mi ritrovo a scrivere del suo lavoro, non posso non rallegrarmi di quell’iniziativa e di quella memoria. Vi ritrovo i germi sbocciati e le piante cresciute, con una freschezza e una forza ricche di stile.

Così, senza anticipare conclusioni complesse e difficili, o astruserie alla moda – com’è usanza oramai quando si scrive di un artista vivente – (che non somigliano né a lui né a me), osservo le conferme e i risultati di quelle premesse pittoriche, e constato che si sono spogliate perfino di alcuni ricordi libreschi che le permeavano, levandosi dirette e libere per virtù di colori di grande felicità intuitiva, sorrette da una sicura libertà di disegno, intera- mente assorbito da quelle, e ad esse connaturato. Con Balest siamo quindi indirizzati a vede- re immagini di considerevole misura, che parlano per virtù di colori (come in Matisse, ma senza quella esaltazione ripetitiva), in uno stato di contemplazione pomeridiana, dove la luce allo zenith governa le diverse composizioni. I timbri delle campiture si sono fatti più ricchi di humus, più spaziati, più puri; il loro accento più energico e fantasioso. Alcuni regi- stri cupi e resistenti sono messi a paragone con gli azzurri e i rosa screziati, con i gialli acidi e i verdi spenti. Nascono, dagli accordi, veri e propri racconti pittorici, da godere come tali, cioè al di fuori e al di sopra degli argomenti addotti dall’artista per motivare il dipinto.

Ciò che stupisce in Balest non sono soltanto i risultati poetici ai quali perviene dipinto per dipinto, ma il loro incanto rispetto ai tempi nei quali viviamo. Di fronte alla tetraggine sconvolta e disordinata del mondo contemporaneo, composto di troppe immotivate geometrie, l’artista sembra entrato nel proprio Eden per evocarlo come antico.

Allo stesso modo Giorgione, incurante della guerra dei Congregati di Cambrai che stava distruggendo Venezia, inventava la Venere addormentata; a Iacopo Tintoretto, durante la peste del 1575-76 che uccideva a Venezia quarantamila anime, dipingeva asserragliato nella Scuola Grande di San Rocco i teleri della Sala dell‘Albergo, scoprendo le incredibili luci del Battesimo di Cristo.

Il risultato, quindi, è quello che il poeta ci dona. Ogni discorso di storia sulle nefandez- ze e le virtù della società in cui viviamo, esce trasfigurato dalla pienezza dei suoi pensieri; cioè dalle sue pitture. Che sono quelli e quelle che contano.

Neri Pozza
Venezia, ottobre 1982

L’idea che Corrado Balest insegua con la fantasia il momento felice dell’esistenza, e che proprio di segni e di colori sia fatta, mi è presente dal 1978; cioè da quando ha esposto a Nuovo Spazio, qui a Venezia, i quaranta dipinti, datati dal 1972 al 1978.

Allora, perché non andasse perduta la memoria di quella rassegna, elaborammo un catalogo postumo, dal titolo Cronaca di una mostra, dove, con rapidi schizzi, l’artista aveva figurato le quaranta opere esposte. Oggi, che le rivedo in quei cenni tutte quaranta, e mi ritrovo a scrivere del suo lavoro, non posso non rallegrarmi di quell’iniziativa e di quella memoria. Vi ritrovo i germi sbocciati e le piante cresciute, con una freschezza e una forza ricche di stile.

Così, senza anticipare conclusioni complesse e difficili, o astruserie alla moda – com’è usanza oramai quando si scrive di un artista vivente – (che non somigliano né a lui né a me), osservo le conferme e i risultati di quelle premesse pittoriche, e constato che si sono spogliate perfino di alcuni ricordi libreschi che le permeavano, levandosi dirette e libere per virtù di colori di grande felicità intuitiva, sorrette da una sicura libertà di disegno, intera- mente assorbito da quelle, e ad esse connaturato. Con Balest siamo quindi indirizzati a vede- re immagini di considerevole misura, che parlano per virtù di colori (come in Matisse, ma senza quella esaltazione ripetitiva), in uno stato di contemplazione pomeridiana, dove la luce allo zenith governa le diverse composizioni. I timbri delle campiture si sono fatti più ricchi di humus, più spaziati, più puri; il loro accento più energico e fantasioso. Alcuni regi- stri cupi e resistenti sono messi a paragone con gli azzurri e i rosa screziati, con i gialli acidi e i verdi spenti. Nascono, dagli accordi, veri e propri racconti pittorici, da godere come tali, cioè al di fuori e al di sopra degli argomenti addotti dall’artista per motivare il dipinto.

Ciò che stupisce in Balest non sono soltanto i risultati poetici ai quali perviene dipinto per dipinto, ma il loro incanto rispetto ai tempi nei quali viviamo. Di fronte alla tetraggine sconvolta e disordinata del mondo contemporaneo, composto di troppe immotivate geometrie, l’artista sembra entrato nel proprio Eden per evocarlo come antico.

Allo stesso modo Giorgione, incurante della guerra dei Congregati di Cambrai che stava distruggendo Venezia, inventava la Venere addormentata; a Iacopo Tintoretto, durante la peste del 1575-76 che uccideva a Venezia quarantamila anime, dipingeva asserragliato nella Scuola Grande di San Rocco i teleri della Sala dell‘Albergo, scoprendo le incredibili luci del Battesimo di Cristo.

Il risultato, quindi, è quello che il poeta ci dona. Ogni discorso di storia sulle nefandez- ze e le virtù della società in cui viviamo, esce trasfigurato dalla pienezza dei suoi pensieri; cioè dalle sue pitture. Che sono quelli e quelle che contano.

Neri Pozza
Venezia, ottobre 1982

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