Balest

Portobuffolè 2013

Museo Casa Gaia

Il paesaggio della poesia

Una lunga fedeltà

Giorgio Baldo

 

La mostra è una piccola antologica che rinvia ai momenti fondamentali della lunga produzione di Corrado Balest.

Sulla scorta delle sezioni delle opere in mostra, tenteremo di seguirne sinteticamente il percorso

Del primo periodo, che dura dall’immediato dopoguerra a tutti gli anni ’60,  sono state scelte alcuni dei primi lavori giovanili risalenti agli anni ’50, assieme ad opere del periodo degli anni ’60.

Per delinearne il contesto ci sembrano utili alcuni cenni biografici.

Balest nasce a Sospirolo, piccolo paese del Feltrino;  abita a Venezia, che sarà poi la casa della sua vita;  qui conduce i suoi studi all’Accademia di Belle Arti assorbendo gli insegnamenti di Carena (che porta in laguna nature morte stupefacenti) e Cadorin (che nel suo essere della generazione dei “piccoli maestri” della Venezia tra le due guerre, da essi talvolta si discosta con slanci in notturni paesaggi); respira del “locale”, recentissima di effetti e impressioni, la scuola di Burano e la sua liquidità periferica di mura colorate, di orti e acquerelli atmosferici e di lievissimi ritratti in Semeghini (ma che Balest sente solo superficialmente); più lo colpisce la solidità di disegno e volume e certo blu acquario del Moggioli; ma, senza dubbio, il Gino Rossi più “francese”, della Bretagna e di Asolo, tra Gaugin e Matisse, lo deve aver colpito in profondità; ma non con effetti immediati, bensì di lungo periodo, che si vedranno soprattutto nella terza parte del suo percorso.

Ma le assonanze che vengono dal “vasto mondo” fuori Venezia lo vengono a cercare nella Biennale del ’48; dove vince Morandi e De Pisis  soffre di non essere riconosciuto primo (e basti vedere a Ca’Pesaro il suo Grande Paesaggio per comprenderne la modernità europea); quel loro inesausto lavorare interiore sul sentimento e sul linguaggio della pittura , in uno scavo solitario e lirico, l’ha sicuramente scosso  e incide, nel suo immaginario e nella sua pittura, segni duraturi.

Con  Morandi ha una consonanza spirituale sorgiva, che già nelle nature morte giovanili (Gladioli, Digitale, Vaso)è condivisione di linguaggio lirico verso le cose “minime” che si rivelano nel tempo, dopo impercettibili e inesauste messe in posa nel teatro della memoria, finché cedono il loro secretum in un attimo di illuminazione repentina, in rarefazione e purezza metafisica.

Con De Pisis un rapporto più sfumato, ma sempre certo,  nella intuizione di un reale che si presenta sempre miracoloso di un battito di amore o morte, innocente, tutto compreso in brevissimi itinerari di esistenza piena, sia esso un fanciullo, un fiore, un pesce di natura morta, un paesaggio che si svela: e come tale, nella pienezza di un momento, colto una volta per sempre. (e forse più si avvicina a questo clima il Paesaggio del 1950)

Nel ’52 la grande mostra di Picasso sarà per lui l’incontro della vita. La sua ricerca complessiva, il suo segno in particolare, sarà per lui fonte inesauribile per la stagione incisoria del 70-80.

Abbiamo citato le fonti principali a cui la fantasia giovanile del pittore si volge, che lui filtra in ricerche inesauste; ma in Balest la propensione verso lo studio della sua disciplina sarà costante verso tutte le esperienze del moderno e del contemporaneo che a Venezia vede di prima mano nelle Biennali e alla Guggenheim, e che segue in una ininterrotta frequentazione delle  mostre in Italia e in Europa.

La sua concezione della pittura è aperta, pronta a recepire, a mettersi in sintonia con l’enormità delle pulsioni del ‘900; e forse intenta, più che ad assimilare ecletticamente, a rafforzarlo nelle ragioni  della sua personale ricerca e dialogo di pittura (come intitolerà un suo scritto del ’90 che rappresenta un po’ lo manifesto della sua estetica); a precisare sempre meglio, per accordo ma anche per distinzione,  il cuore del suo linguaggio .

Ma, ritornando  al suo primo periodo che dura sino a tutti gli anni ’60, e al suo scorrere nella prima sezione della mostra, alcuni motivi e timbri emergono via via, sino a identificare una personalità definita.

Di quel periodo, tentandone una sintesi,  scrisse Jacopo Fasolo nel catalogo, pubblicato da Neri Pozza, del 1965 “La fermezza dei volumi suggeriti e fissati dalla luce nella tonalità luminosa ambientale (e un’attenzione spontanea alla scuola metafisica è evidente) si muterà poi in un eguale rigore plastico costruito con elementi cromatici sempre più  influenti nel gioco dei rapporti; ma rimarrà sempre la caratterizzazione tonale di una vigile quiete interiore che sotto alcuni aspetti ricorda la lezione morandiana.”

Possiamo seguire in Venezia e Zattere la sua prima ricerca: che inventa  una Venezia di luminosità minerale quasi geometrica, di angoli minori mossi da giochi di aria sottile, di biancori ravvivati da timbri inconsueti (i gialli insorgenti, gli azzurri chiari che si addensano in minime ombre, i verdi marini ) ; che prova a catturare le superfici ritmo-colore veneziane disegnando appena volumi; tutto ciò è la manifestazione visibile di un fremito interiore, mai gridato eppure potente, articolato, di un concerto di rime pittoriche, di suoni intellettuali, di lavorii quasi impercettibili su ogni segno- parola, su ogni indugiare di spazi; ma tutto l’interiore “Canzoniere” sulla città-specchio, scorre, nella sua fluidità, in una forma rigorosa di composizione.

Poi, ed è il secondo momento del  suo primo periodo, su quelle superfici chiare, sui disegni dalla chiarità e quasi rarefazione del colore delle prime prove, ecco un improvviso complicare, infittire i segni, lavorare sul lato dello scuro, del colore infittito e notturno.

E su questo sfondo (ma è un climax) così tipico dei paesaggi collinari di un suo Montello, pieno di verde e terra, di addensamenti meridiani, di scurità, avviene l’emersione lenta degli oggetti da ciò che sembra macchia; e le nature morte – quegli inviluppi – sembrano pretesti per far emergere il lato selvatico e notturno delle selve, per un apparire, emergendo dall’ombra, di una consistenza del peso delle cose.

Ma è anche trovare una gamma di colori lucenti, spessi e caldi per la sua Venezia

 

Le incisioni: “Motivi veneziani” “Dei in campagna”, “Motivi d’amore”

I nuovi motivi

La seconda sezione della mostra, che abbraccia tutti gli anni ’70, presenta le incisioni degli Dei in campagna e dei Motivi d’amore Improvvisamente, agli inizi degli anni ’70, vi è un cambio di registro radicale nella pittura di Balest.

Il pittore disloca il suo universo immaginativo fuori e oltre il reale di Venezia e del Veneto familiare.

La sua ricerca trova, rispetto ai temi sviluppati nei generi precedentemente praticati (la natura morta, la pittura di paesaggio, il ritratto), nuovi motivi.

E con essi un “nuovo” mondo.

Tutto sembra iniziare da una permanenza di mesi in una villa veneta, nel cui ambiente conduce un esperimento di rivisitazione e interrogazione di miti classici.

Nei giardini e boschetti interrotti da piccole fontane, statue e resti di decori antichi segnati dal tempo, nella frescura di un’ispirazione di frenesie amorose, disegna, a partire dal 1970, la rinascita di un mondo aurorale, vivo di antica sapienza greca.

In una scenografia  quasi archeologica di rovine (un antico fatto di busti spezzati, di volti tronchi, di colonne rovesciate)  Balest immagina una rinascita; soffia, proveniente dalla sua personale natura, un canto di eros su quel mondo immobile e pietrificato; e a questa voce, al suono della sua cetra interiore ( e si noterà poi quanto questo strumento di Orfeo apparirà nelle sue opere pittoriche successive) ecco avvenire il miracolo.

In quegli antichi giardini, tra fronde boschive e scorrere d’acque sorgive, ecco animarsi un concerto e  giovanetti risvegliati dal sonno del mito pietrificato, curiosi di essere rinati,  si scoprono corpi di carne e sogni e istinti, che si sfiorano, si rincorrono tra gli alberi al chiaro di luna, si toccano con immensa curiosità e timidezza: danzano.

Rimangono intorno le rovine, i busti spezzati, le colonne a terra (e sono l’antico che non può vivere se non in memoria, in “classico”); ma i corpi, quei giovani corpi che da quelle rovine classiche sono sorti, sono vivi: pulsano Eros

Vogliono ancora un posto nel mondo presente.

Balest li disegna; e disegna anche le ninfe, i satiri, la vegetazione e l’aria che li circondano e ne spiano i corpi adolescenti.

In quella villa per mesi il pittore inizia a dare fattezze al suo sogno, al suo desiderio: che il mondo è sempre anche il suo mattino.

Che non siamo nella ormai perenne oscurità della nostra ragione.

Di quei risvegli  farà una raccolta fondamentale di acqueforti; lo concluderà con una acquaforte che dice “I corpi ridiventano pietre”.

Ma non è così.

Osservarli, averli rivissuti nei loro intimi moti, l’ha riportato a quel tempo permanentemente, a quell’ora in cui il caos notturno si risveglia nella luce mattutina; a quell’elisir non si rinuncia..

Da questo momento Balest segue (inventa) il loro ritorno.

Ritorna a Venezia.

E porta in un nuovo luogo i rinati e il loro mondo.

Ed essi non vogliono vivere solo nel ricordo di quel sogno in villa; l’ adolescenza del mondo è un suo momento eterno, che sempre permane, che occorre ribadire non solo dentro quei giardini, confinato all’antico, ma oggi, nei boschi del Montello, nei giardini in campagna, nelle terrazze di Venezia.

La giovinezza esiste.

 

Ecco così comporsi la seconda raccolta di acqueforti straordinarie, con titolo Motivi d’amore.

Il soggetto è Eros; il motivo è l’adolescenza e l’aurora dei corpi e del mondo.

Acquaforte per acquaforte la pulsione che l’oggi sembra negare e che pur permane dimensione vitale delle nostre corde spirituali e sentimentali, oltre che fissata nel classico del nostro passato,  trova forme molteplici per provare a reinsediarsi nel presente.

Ciò che si respira nelle acqueforti è un’aria di aurorale futuro.

Ciò che si vede davanti alla grande estensione del mare, o in radure boschive, è il raccoglimento di giovani corpi solitari in riflessione su se stessi, eros adolescente, che attende la sorpresa dell’incanto del tocco dell’altro corpo che risveglia e raccoglie desideri; timidezza androgina (aperta a ogni esito) e guardoni, satiri, caproni che spiano da dietro una siepe, o nel momento del sonno,  l’inesauribile eros innocente e insieme turbato dell’amore che scuote gli efebi, non ancora sicuri della loro sensualità e del loro sesso, curiosi di scoprire, di toccare dolcemente, di vedere.

Siamo in un giardino dell’eden dei sensi, dove giocano con l’aria e una natura attonita le leggerezze dell’amore giovane, sempre così curioso, aperto; e  corpi belli e nudi o appena velati per esaltare le nudità (ci sarà tempo per le malizie dei satiri).

E c’è qualcuno che guarda l’Eden delle possibilità del futuro. (più ancora del pittore,  siamo noi adulti che guardiamo noi ridivenuti giovani di sguardo)

Poi siamo a Venezia.

A una Venezia aerea di finestre e terrazze ; da dove giovanette che prendono il sole, guardano il mare. (e chissà cosa sognano)

Lo spazio nei Motivi d’amore è  fulgido, netto;  è uno spazio “filosofico” e, insieme, poetico.

E , a testimonianza di questo, e non per retorico dire, sta il fatto che tante di queste  “Acqueforti” sono nate dall’incontro e da lavori comuni con i poeti, che Balest  ha avuto per amici; Bandini, Fasolo, Zanzotto, Rizzo e alcune di “accompagnamento” a traduzioni di Virgilio.

Le “Acqueforti “ disegnano quindi un universo; che pur essendo “antico” è nuovo di risvegliati desideri, di identificazioni con i flussi della visione lirica dell’esistenza. (e Saffo che ad occhi aperti tra i covoni guarda alla luna ne sembra il perfetto emblema)

In una prima fase, per tutti gli anni ’70, l’immagine del nuovo mondo e dei motivi che lo muovono si materializzano in disegno; quasi avesse bisogno di precisare, prima ancora che il colore, i tratti di un intero universo immaginativo.

 

Il dispiegarsi dello sguardo: il colore

Il dispiegarsi a pieno dell’universo “ideale”  lì disegnato durerà,  con una molteplicità di invenzioni spaziali e coloristiche sino al 2000, anno della grande mostra di San Donà di Piave.

I suoi colori suonano una gioia ininterrotta di vivere; gli spazi dove fluiscono adeguano la loro estensione alla freschezza della loro risonanza..

Il suo amico forse più caro, Tiziano Rizzo, fermerà in pochi versi (che valgono un intero apparato critico) la lirica della pittura di questo periodo

Acrostico

Per l’amico pittore Corrado Balest

Balenano le istanze, le ragnatele

Alludono e fluiscono sagaci,

Lolite là s’infrattano per meglio

Esser spiate dal benigno satiro,

Sapienti interni s’aprono alle attiche

Terre di luce, ai golfi di mezz’ombra.

 

Il luogo ideale dello stare dei suoi personaggi è il Mediterraneo, il mare della sapienza antica e delle sempre rinnovantesi solarità.

Brezze, trasparenze e  marine sono quelle dei golfi amalfitani e dell’isola di Capri; altri azzurri e il Vello d’oro di Giasone e degli Argonauti li troviamo nelle spiagge del Lido, dove il pittore disegna sulla sabbie dorata  bagnata dal fresco Adriatico la sua modella, una giovane e sottile Lolita.

Finestre e terrazze sono sempre aperte su quelle estensioni marine; a evocare la macchia mediterranea e i pini marittimi e i loro profumi, accanto ai corpi che perennemente guardano cielo e mare, ecco il vaso che contiene la pianta del limone o una verdissima lingua spinosa, forse un piccolo cactus.

Il colore si adegua a quelle brillantezze, a quella ampiezza di orizzonte, in quel pulsare di toni e controtoni di concentrazioni interiori.

Il Mediterraneo, le sue spiagge, golfi e  arie governano le magie dell’apparire.

Gli dei sono ritornati: al loro festino di giovani corpi si accordano i colori e le malizie (in questa Venezia già i due massimi, Bellini e Tiziano, insieme nello stesso quadro, ne fermarono in passato i baccanali sul monte Elicona) .

 

E infine, nell’ultima parte della mostra, seguiamo Balest negli ultimi anni in cui in una più rarefatta e quasi metafisica aria del tempo, ritrova quegli stessi motivi più scarni, più velati di uno struggimento interiore e di una sapienza del mondo;  più concentrati in una verità di cose essenziali da trasmettere, un ideale testamento, una rarefazione delle accensioni di eros in una solidificazione di luci più fredde, più minerali.

Non vi è dubbio che un corpo-pittura come quello di Balest, in ognuna delle sue fasi storiche, respiri in sintonia con una propensione lirica verso il mondo, tenacemente coltivata in un suo privato e perennemente perseguito dialogo di pittura.

Ma vi è qualcosa di ulteriore che ne movimenta il corpo e la ricerca.

 

Balest è un uomo colto, di una cultura profonda.

Tutto il suo mondo trova alimento e sostegno nella poesia; in essa trova il suo luogo e linfa vitale.

La sua originalità sta in ciò: è un pittore lirico, un pittore per poeti.

Di questi ha la sottigliezza degli accenti, la sapienza delle rime e del suono, la bruciante capacità della sintesi che aprono un “oltre” di sensi.

Di questa sapienza “umana” e pittorica, ci piace dare testimonianza; la lunga fedeltà del titolo di questo scritto, che fa volutamente il verso a quella di Contini per Montale, è propriamente il trovato “miglior dire” per manifestare la passione di chi scrive verso la sua opera.

Del novecento ha assimilato l’astuzia del silenzio, la metafisica delle cose che si rivelano nel tempo e che parlano tra loro in nostra assenza come nelle case di Savinio, nelle notti quando sedie, divani, poltrone e  vasi si scuotono dal loro essere cose e discorrono di noi che dormiamo; ha assimilato l’estremismo del secolo, volgendolo in una passione senza rete verso un dire esclusivo: affermare che il mondo è sempre nel suo mattino, che questo è l’”altro mondo” che nelle tante stanze del nostro io abita quella più alta, con larghe vetrate; lì sempre ci presenta la sua nuca di efebo; perché il suo sguardo è sulla terrazza marina, dove una vergine guarda il mare.

Balest

Portobuffolè 2013

Museo Casa Gaia

Il paesaggio della poesia

Una lunga fedeltà

Giorgio Baldo

 

La mostra è una piccola antologica che rinvia ai momenti fondamentali della lunga produzione di Corrado Balest.

Sulla scorta delle sezioni delle opere in mostra, tenteremo di seguirne sinteticamente il percorso

Del primo periodo, che dura dall’immediato dopoguerra a tutti gli anni ’60,  sono state scelte alcuni dei primi lavori giovanili risalenti agli anni ’50, assieme ad opere del periodo degli anni ’60.

Per delinearne il contesto ci sembrano utili alcuni cenni biografici.

Balest nasce a Sospirolo, piccolo paese del Feltrino;  abita a Venezia, che sarà poi la casa della sua vita;  qui conduce i suoi studi all’Accademia di Belle Arti assorbendo gli insegnamenti di Carena (che porta in laguna nature morte stupefacenti) e Cadorin (che nel suo essere della generazione dei “piccoli maestri” della Venezia tra le due guerre, da essi talvolta si discosta con slanci in notturni paesaggi); respira del “locale”, recentissima di effetti e impressioni, la scuola di Burano e la sua liquidità periferica di mura colorate, di orti e acquerelli atmosferici e di lievissimi ritratti in Semeghini (ma che Balest sente solo superficialmente); più lo colpisce la solidità di disegno e volume e certo blu acquario del Moggioli; ma, senza dubbio, il Gino Rossi più “francese”, della Bretagna e di Asolo, tra Gaugin e Matisse, lo deve aver colpito in profondità; ma non con effetti immediati, bensì di lungo periodo, che si vedranno soprattutto nella terza parte del suo percorso.

Ma le assonanze che vengono dal “vasto mondo” fuori Venezia lo vengono a cercare nella Biennale del ’48; dove vince Morandi e De Pisis  soffre di non essere riconosciuto primo (e basti vedere a Ca’Pesaro il suo Grande Paesaggio per comprenderne la modernità europea); quel loro inesausto lavorare interiore sul sentimento e sul linguaggio della pittura , in uno scavo solitario e lirico, l’ha sicuramente scosso  e incide, nel suo immaginario e nella sua pittura, segni duraturi.

Con  Morandi ha una consonanza spirituale sorgiva, che già nelle nature morte giovanili (Gladioli, Digitale, Vaso)è condivisione di linguaggio lirico verso le cose “minime” che si rivelano nel tempo, dopo impercettibili e inesauste messe in posa nel teatro della memoria, finché cedono il loro secretum in un attimo di illuminazione repentina, in rarefazione e purezza metafisica.

Con De Pisis un rapporto più sfumato, ma sempre certo,  nella intuizione di un reale che si presenta sempre miracoloso di un battito di amore o morte, innocente, tutto compreso in brevissimi itinerari di esistenza piena, sia esso un fanciullo, un fiore, un pesce di natura morta, un paesaggio che si svela: e come tale, nella pienezza di un momento, colto una volta per sempre. (e forse più si avvicina a questo clima il Paesaggio del 1950)

Nel ’52 la grande mostra di Picasso sarà per lui l’incontro della vita. La sua ricerca complessiva, il suo segno in particolare, sarà per lui fonte inesauribile per la stagione incisoria del 70-80.

Abbiamo citato le fonti principali a cui la fantasia giovanile del pittore si volge, che lui filtra in ricerche inesauste; ma in Balest la propensione verso lo studio della sua disciplina sarà costante verso tutte le esperienze del moderno e del contemporaneo che a Venezia vede di prima mano nelle Biennali e alla Guggenheim, e che segue in una ininterrotta frequentazione delle  mostre in Italia e in Europa.

La sua concezione della pittura è aperta, pronta a recepire, a mettersi in sintonia con l’enormità delle pulsioni del ‘900; e forse intenta, più che ad assimilare ecletticamente, a rafforzarlo nelle ragioni  della sua personale ricerca e dialogo di pittura (come intitolerà un suo scritto del ’90 che rappresenta un po’ lo manifesto della sua estetica); a precisare sempre meglio, per accordo ma anche per distinzione,  il cuore del suo linguaggio .

Ma, ritornando  al suo primo periodo che dura sino a tutti gli anni ’60, e al suo scorrere nella prima sezione della mostra, alcuni motivi e timbri emergono via via, sino a identificare una personalità definita.

Di quel periodo, tentandone una sintesi,  scrisse Jacopo Fasolo nel catalogo, pubblicato da Neri Pozza, del 1965 “La fermezza dei volumi suggeriti e fissati dalla luce nella tonalità luminosa ambientale (e un’attenzione spontanea alla scuola metafisica è evidente) si muterà poi in un eguale rigore plastico costruito con elementi cromatici sempre più  influenti nel gioco dei rapporti; ma rimarrà sempre la caratterizzazione tonale di una vigile quiete interiore che sotto alcuni aspetti ricorda la lezione morandiana.”

Possiamo seguire in Venezia e Zattere la sua prima ricerca: che inventa  una Venezia di luminosità minerale quasi geometrica, di angoli minori mossi da giochi di aria sottile, di biancori ravvivati da timbri inconsueti (i gialli insorgenti, gli azzurri chiari che si addensano in minime ombre, i verdi marini ) ; che prova a catturare le superfici ritmo-colore veneziane disegnando appena volumi; tutto ciò è la manifestazione visibile di un fremito interiore, mai gridato eppure potente, articolato, di un concerto di rime pittoriche, di suoni intellettuali, di lavorii quasi impercettibili su ogni segno- parola, su ogni indugiare di spazi; ma tutto l’interiore “Canzoniere” sulla città-specchio, scorre, nella sua fluidità, in una forma rigorosa di composizione.

Poi, ed è il secondo momento del  suo primo periodo, su quelle superfici chiare, sui disegni dalla chiarità e quasi rarefazione del colore delle prime prove, ecco un improvviso complicare, infittire i segni, lavorare sul lato dello scuro, del colore infittito e notturno.

E su questo sfondo (ma è un climax) così tipico dei paesaggi collinari di un suo Montello, pieno di verde e terra, di addensamenti meridiani, di scurità, avviene l’emersione lenta degli oggetti da ciò che sembra macchia; e le nature morte – quegli inviluppi – sembrano pretesti per far emergere il lato selvatico e notturno delle selve, per un apparire, emergendo dall’ombra, di una consistenza del peso delle cose.

Ma è anche trovare una gamma di colori lucenti, spessi e caldi per la sua Venezia

 

Le incisioni: “Motivi veneziani” “Dei in campagna”, “Motivi d’amore”

I nuovi motivi

La seconda sezione della mostra, che abbraccia tutti gli anni ’70, presenta le incisioni degli Dei in campagna e dei Motivi d’amore Improvvisamente, agli inizi degli anni ’70, vi è un cambio di registro radicale nella pittura di Balest.

Il pittore disloca il suo universo immaginativo fuori e oltre il reale di Venezia e del Veneto familiare.

La sua ricerca trova, rispetto ai temi sviluppati nei generi precedentemente praticati (la natura morta, la pittura di paesaggio, il ritratto), nuovi motivi.

E con essi un “nuovo” mondo.

Tutto sembra iniziare da una permanenza di mesi in una villa veneta, nel cui ambiente conduce un esperimento di rivisitazione e interrogazione di miti classici.

Nei giardini e boschetti interrotti da piccole fontane, statue e resti di decori antichi segnati dal tempo, nella frescura di un’ispirazione di frenesie amorose, disegna, a partire dal 1970, la rinascita di un mondo aurorale, vivo di antica sapienza greca.

In una scenografia  quasi archeologica di rovine (un antico fatto di busti spezzati, di volti tronchi, di colonne rovesciate)  Balest immagina una rinascita; soffia, proveniente dalla sua personale natura, un canto di eros su quel mondo immobile e pietrificato; e a questa voce, al suono della sua cetra interiore ( e si noterà poi quanto questo strumento di Orfeo apparirà nelle sue opere pittoriche successive) ecco avvenire il miracolo.

In quegli antichi giardini, tra fronde boschive e scorrere d’acque sorgive, ecco animarsi un concerto e  giovanetti risvegliati dal sonno del mito pietrificato, curiosi di essere rinati,  si scoprono corpi di carne e sogni e istinti, che si sfiorano, si rincorrono tra gli alberi al chiaro di luna, si toccano con immensa curiosità e timidezza: danzano.

Rimangono intorno le rovine, i busti spezzati, le colonne a terra (e sono l’antico che non può vivere se non in memoria, in “classico”); ma i corpi, quei giovani corpi che da quelle rovine classiche sono sorti, sono vivi: pulsano Eros

Vogliono ancora un posto nel mondo presente.

Balest li disegna; e disegna anche le ninfe, i satiri, la vegetazione e l’aria che li circondano e ne spiano i corpi adolescenti.

In quella villa per mesi il pittore inizia a dare fattezze al suo sogno, al suo desiderio: che il mondo è sempre anche il suo mattino.

Che non siamo nella ormai perenne oscurità della nostra ragione.

Di quei risvegli  farà una raccolta fondamentale di acqueforti; lo concluderà con una acquaforte che dice “I corpi ridiventano pietre”.

Ma non è così.

Osservarli, averli rivissuti nei loro intimi moti, l’ha riportato a quel tempo permanentemente, a quell’ora in cui il caos notturno si risveglia nella luce mattutina; a quell’elisir non si rinuncia..

Da questo momento Balest segue (inventa) il loro ritorno.

Ritorna a Venezia.

E porta in un nuovo luogo i rinati e il loro mondo.

Ed essi non vogliono vivere solo nel ricordo di quel sogno in villa; l’ adolescenza del mondo è un suo momento eterno, che sempre permane, che occorre ribadire non solo dentro quei giardini, confinato all’antico, ma oggi, nei boschi del Montello, nei giardini in campagna, nelle terrazze di Venezia.

La giovinezza esiste.

 

Ecco così comporsi la seconda raccolta di acqueforti straordinarie, con titolo Motivi d’amore.

Il soggetto è Eros; il motivo è l’adolescenza e l’aurora dei corpi e del mondo.

Acquaforte per acquaforte la pulsione che l’oggi sembra negare e che pur permane dimensione vitale delle nostre corde spirituali e sentimentali, oltre che fissata nel classico del nostro passato,  trova forme molteplici per provare a reinsediarsi nel presente.

Ciò che si respira nelle acqueforti è un’aria di aurorale futuro.

Ciò che si vede davanti alla grande estensione del mare, o in radure boschive, è il raccoglimento di giovani corpi solitari in riflessione su se stessi, eros adolescente, che attende la sorpresa dell’incanto del tocco dell’altro corpo che risveglia e raccoglie desideri; timidezza androgina (aperta a ogni esito) e guardoni, satiri, caproni che spiano da dietro una siepe, o nel momento del sonno,  l’inesauribile eros innocente e insieme turbato dell’amore che scuote gli efebi, non ancora sicuri della loro sensualità e del loro sesso, curiosi di scoprire, di toccare dolcemente, di vedere.

Siamo in un giardino dell’eden dei sensi, dove giocano con l’aria e una natura attonita le leggerezze dell’amore giovane, sempre così curioso, aperto; e  corpi belli e nudi o appena velati per esaltare le nudità (ci sarà tempo per le malizie dei satiri).

E c’è qualcuno che guarda l’Eden delle possibilità del futuro. (più ancora del pittore,  siamo noi adulti che guardiamo noi ridivenuti giovani di sguardo)

Poi siamo a Venezia.

A una Venezia aerea di finestre e terrazze ; da dove giovanette che prendono il sole, guardano il mare. (e chissà cosa sognano)

Lo spazio nei Motivi d’amore è  fulgido, netto;  è uno spazio “filosofico” e, insieme, poetico.

E , a testimonianza di questo, e non per retorico dire, sta il fatto che tante di queste  “Acqueforti” sono nate dall’incontro e da lavori comuni con i poeti, che Balest  ha avuto per amici; Bandini, Fasolo, Zanzotto, Rizzo e alcune di “accompagnamento” a traduzioni di Virgilio.

Le “Acqueforti “ disegnano quindi un universo; che pur essendo “antico” è nuovo di risvegliati desideri, di identificazioni con i flussi della visione lirica dell’esistenza. (e Saffo che ad occhi aperti tra i covoni guarda alla luna ne sembra il perfetto emblema)

In una prima fase, per tutti gli anni ’70, l’immagine del nuovo mondo e dei motivi che lo muovono si materializzano in disegno; quasi avesse bisogno di precisare, prima ancora che il colore, i tratti di un intero universo immaginativo.

 

Il dispiegarsi dello sguardo: il colore

Il dispiegarsi a pieno dell’universo “ideale”  lì disegnato durerà,  con una molteplicità di invenzioni spaziali e coloristiche sino al 2000, anno della grande mostra di San Donà di Piave.

I suoi colori suonano una gioia ininterrotta di vivere; gli spazi dove fluiscono adeguano la loro estensione alla freschezza della loro risonanza..

Il suo amico forse più caro, Tiziano Rizzo, fermerà in pochi versi (che valgono un intero apparato critico) la lirica della pittura di questo periodo

Acrostico

Per l’amico pittore Corrado Balest

Balenano le istanze, le ragnatele

Alludono e fluiscono sagaci,

Lolite là s’infrattano per meglio

Esser spiate dal benigno satiro,

Sapienti interni s’aprono alle attiche

Terre di luce, ai golfi di mezz’ombra.

 

Il luogo ideale dello stare dei suoi personaggi è il Mediterraneo, il mare della sapienza antica e delle sempre rinnovantesi solarità.

Brezze, trasparenze e  marine sono quelle dei golfi amalfitani e dell’isola di Capri; altri azzurri e il Vello d’oro di Giasone e degli Argonauti li troviamo nelle spiagge del Lido, dove il pittore disegna sulla sabbie dorata  bagnata dal fresco Adriatico la sua modella, una giovane e sottile Lolita.

Finestre e terrazze sono sempre aperte su quelle estensioni marine; a evocare la macchia mediterranea e i pini marittimi e i loro profumi, accanto ai corpi che perennemente guardano cielo e mare, ecco il vaso che contiene la pianta del limone o una verdissima lingua spinosa, forse un piccolo cactus.

Il colore si adegua a quelle brillantezze, a quella ampiezza di orizzonte, in quel pulsare di toni e controtoni di concentrazioni interiori.

Il Mediterraneo, le sue spiagge, golfi e  arie governano le magie dell’apparire.

Gli dei sono ritornati: al loro festino di giovani corpi si accordano i colori e le malizie (in questa Venezia già i due massimi, Bellini e Tiziano, insieme nello stesso quadro, ne fermarono in passato i baccanali sul monte Elicona) .

 

E infine, nell’ultima parte della mostra, seguiamo Balest negli ultimi anni in cui in una più rarefatta e quasi metafisica aria del tempo, ritrova quegli stessi motivi più scarni, più velati di uno struggimento interiore e di una sapienza del mondo;  più concentrati in una verità di cose essenziali da trasmettere, un ideale testamento, una rarefazione delle accensioni di eros in una solidificazione di luci più fredde, più minerali.

Non vi è dubbio che un corpo-pittura come quello di Balest, in ognuna delle sue fasi storiche, respiri in sintonia con una propensione lirica verso il mondo, tenacemente coltivata in un suo privato e perennemente perseguito dialogo di pittura.

Ma vi è qualcosa di ulteriore che ne movimenta il corpo e la ricerca.

 

Balest è un uomo colto, di una cultura profonda.

Tutto il suo mondo trova alimento e sostegno nella poesia; in essa trova il suo luogo e linfa vitale.

La sua originalità sta in ciò: è un pittore lirico, un pittore per poeti.

Di questi ha la sottigliezza degli accenti, la sapienza delle rime e del suono, la bruciante capacità della sintesi che aprono un “oltre” di sensi.

Di questa sapienza “umana” e pittorica, ci piace dare testimonianza; la lunga fedeltà del titolo di questo scritto, che fa volutamente il verso a quella di Contini per Montale, è propriamente il trovato “miglior dire” per manifestare la passione di chi scrive verso la sua opera.

Del novecento ha assimilato l’astuzia del silenzio, la metafisica delle cose che si rivelano nel tempo e che parlano tra loro in nostra assenza come nelle case di Savinio, nelle notti quando sedie, divani, poltrone e  vasi si scuotono dal loro essere cose e discorrono di noi che dormiamo; ha assimilato l’estremismo del secolo, volgendolo in una passione senza rete verso un dire esclusivo: affermare che il mondo è sempre nel suo mattino, che questo è l’”altro mondo” che nelle tante stanze del nostro io abita quella più alta, con larghe vetrate; lì sempre ci presenta la sua nuca di efebo; perché il suo sguardo è sulla terrazza marina, dove una vergine guarda il mare.

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